Sulle orme di Joséphine: Nicolle Rochelle tra arte e impegno

Juni, 2025 | Interview

Originaria del New Jersey, Nicolle ha iniziato giovanissima la sua carriera nel mondo dello spettacolo, calcando i palcoscenici di Broadway come attrice, cantante e ballerina già all’età di otto anni. Dopo aver vissuto a New York, nel 2006 si trasferisce in Francia dove ottiene grande successo con uno spettacolo musicale firmato Jérôme Savary, dedicato alla leggendaria Joséphine Baker — artista che tuttora rappresenta una fonte di ispirazione profonda per Nicolle. Lo show la porta in tournée internazionale per quattro anni. Stabilitasi poi a Parigi, si immerge nella scena musicale francese, collaborando con il pianista e cantante Julien Brunetaud, scoprendo il boogie-woogie e sperimentando nuovi generi come l’electro-swing. Oggi è un’artista affermata sulla scena europea, dove si esibisce regolarmente con musicisti del panorama boogie e trad jazz. Ad Ascona la vediamo protagonista insieme a due formazioni berlinesi d’eccezione: la Jungle Jazz Band e The Big Five.

Nicolle, presentaci in breve le due band
Sono ancora nuova in entrambe le formazioni. Ci stiamo conoscendo. Con la Jungle Jazz Band condivido l’amore per i classici del blues e del jazz, anche se loro si concentrano di più sugli anni Venti. The Big Five, invece, sono più focalizzati sugli anni Trenta e Quaranta, e lì canto brani alla Billie Holiday, con arrangiamenti più sofisticati. Due energie diverse, ma musicisti incredibilmente talentuosi in entrambi i casi”.

Oltre a cantare balli anche sul palco…
Sì, adoro ballare lindy hop, blues, shag, boogie woogie…. È un modo per esprimermi, per immergermi nella musica. E se il pubblico balla con me, è ancora meglio! Non riesco a stare ferma quando sento questa musica. Per me, cantare e ballare sono profondamente legati.

Sei passata da Broadway al jazz, al blues, ma anche all’hip-hop… Cos’è che ti spinge a esplorare così tanti stili?
A New York gli spettacoli di Broadway mescolano spesso musica classica, hip-hop, rock, pop… quindi per forza impari un po’ di tutto. Ma oltre a questo, sono sempre stata curiosa. Amo i suoni, imitarli… o meglio, viverli. Sono cresciuta ascoltando i Nirvana, ho cantato rock, mi piace anche l’elettronica, la chanson francese, la house, persino la samba che ho scoperto di recente in Brasile. E poi, quando si conoscono anche i balli associati, l’esperienza musicale diventa ancora più ricca. Da bambina ho fatto anche tip tap! Tutto questo nutre la mia espressione artistica. Ballare è un’esperienza salutare e tutti dovrebbero sapere muoversi un po’.

Vieni da una famiglia di artisti?
Non proprio. I miei genitori sono insegnanti – liceo e università – ma sono professori molto vivaci, molto creativi. In casa ascoltavamo musica e cantavamo spesso assieme, per divertirci. Io ho capito molto presto che volevo cantare. A cinque anni ho avuto come una rivelazione: «Sono nata per cantare». I miei genitori mi hanno sempre sostenuta, a patto che fossi educata, seria e ottenessi buoni voti. Ho iniziato a fare provini, e ha funzionato.

Torniamo allo spettacolo musicale À la recherche de Joséphine: quella fu la svolta nella tua carriera, vero?
Indubbiamente. Racconta la storia di un produttore che vaga tra le rovine di New Orleans, colpita dall’uragano Katrina, alla ricerca di una ballerina che interpretasse Joséphine Baker. Jérôme Savary, il regista, volle ambientare l’inizio in quel clima di desolazione reale. Era una creazione davvero originale. Savary mise in scena la tragedia della città, la disperazione di chi era rimasto senza nulla, letteralmente alla deriva. Il mio personaggio aveva perso il cane durante l’uragano e, per uno strano caso del destino, incontrava un produttore francese che la scritturava per interpretare Joséphine. Lo spettacolo era un tributo a Joséphine Baker, donna libera e ironica, ma anche un omaggio al jazz afroamericano, con un forte richiamo alla memoria della schiavitù e alla dignità di un popolo che non ha mai smesso di lottare per la propria libertà interiore. Fu un grande successo. Jérôme era davvero un genio, un visionario, una persona profondamente umana. Lavorare con lui è stato un sogno.

Che cosa ti ha motivata, dopo, a non tornare negli Stati Uniti e restare in Francia?
Restare in Francia è sempre stato nei miei piani: studio il francese da quando avevo 11 anni e sognavo di cantare Piaf, Lucienne Boyer, Joséphine Baker, Aznavour, Montand… Cantare in francese, oggi, insieme all’inglese, è una grande soddisfazione. Mi piace spaziare tra soul, pop, i classici di Tina Turner, ma anche jazz tradizionale, blues e boogie-woogie. Essendo afroamericana, molti mi dicono che nella mia voce questi generi suonano autentici, come se avessero una forza speciale. Poi qui in Europa, ci sono molte più opportunità per esplorare questi stili. Negli Stati Uniti, invece, è piuttosto difficile trovare spazio per il boogie-woogie o il jazz tradizionale – per non parlare della canzone francese…

Ho letto che sei anche attiva nella difesa dei diritti delle donne, come attivista. Puoi dirci di più?
Quando a 12 anni ho scoperto la vita di Joséphine Baker e ho letto tutto ciò che ha fatto per gli altri, sono rimasta profondamente colpita. Josephine era un’artista, certo, ma soprattutto una donna fortemente impegnata e di grande umanità. Difendeva i diritti di tutti, non solo delle donne. È quello che cerco di fare anch’io, oltre alla musica. In Francia ho aderito al gruppo Femen. Sono le uniche che ho visto davvero scuotere le cose, mettere in luce temi difficili, senza vergogna del loro corpo – proprio come Joséphine ai suoi tempi. Per me, il corpo è uno strumento di espressione, non un oggetto sessuale. Mi sono riconosciuta in questo.

Sei molto attiva con Femen?
Non molto. Ammiro il loro coraggio, ma agisco con prudenza. Ho partecipato ad alcune azioni, in particolare per l’Ucraina, o per sostenere le donne in Iran, uccise per motivi assurdi. Ma bisogna stare attenti: a volte è pericoloso. Voglio continuare a vivere, a cantare, quindi doso la mia partecipazione.

Attivismo e musica: sono due aspetti complementari per te?
Esattamente. Il mio obiettivo è toccare le persone. Se riesco a emozionarne anche solo una per concerto, ho fatto il mio lavoro. Ma vorrei toccarne di più. E dato che non tutto può passare attraverso la musica, l’attivismo è un altro mezzo. Allo stesso tempo, non si può fare tutto, né curare ogni cosa. Cerco quindi di trasmettere amore, pace, gioia – anche solo attraverso le piccole cose della quotidianità, come una conversazione come questa, per esempio.

Felice di tornare a JazzAscona?
Sì, ho un bellissimo ricordo della mia prima volta con Julien Brunetaud, una decina d’anni fa. Ascona è un posto meraviglioso, è come fare un salto nel mondo delle favole.