Sergio Caputo

Intervista

Fin dagli anni Ottanta la tua musica ha sposato un certo sincretismo, sviluppando un mix sonoro che ha fuso insieme elementi pop, swing e accenni alla world music in stile Peter Gabriel.

Da “Un sabato italiano” a “Italiani mambo” per finire con “Il Garibaldi innamorato.” La tua è più che una predilezione per la commistione tra i generi, me lo confermi?

Hai sicuramente ragione. Io stesso quando devo definire il mio stile adotto volentieri il termine “pop jazz.” Diciamo che ho usato per il jazz un trattamento pop il che ha permesso alla mia musica, al mio jazz, per l’appunto, di arrivare al mainstream e in classifica. In realtà non ho mai smesso di sperimentare in questa direzione; a cambiare è stato, piuttosto, il mondo dei media che ha dato sempre meno spazio alla musica, una politica, questa, che mi ha spinto ad abbandonare le major della discografia per diventare un artista indipendente. In questa scelta sono stato uno dei primi in Italia, se non il primo in assoluto; pensa, sono indipendente dai primi anni Novanta.

Questo, chiamiamolo pure, mio abbandono, ha, ovviamente, avuto un prezzo. Ho perso la visibilità che avevo un tempo, ma, per mia fortuna, proprio in quel periodo ho deciso di trasferirmi a vivere negli Stati Uniti e per molto tempo non sono tornato in Italia. Nonostante ciò, non ho mai fermato la mia produzione musicale anche se, finalmente libero da vincoli contrattuali, non ero più costretto a fare un album all’anno. In quanto a primati, concedimelo, grazie a Carlo Massarini e alla sua trasmissione “Mr. Fantasy”, sono stato un pioniere anche nella realizzazione dei videoclip: allora, lo ricordo, non c’era ancora Videomusic e nemmeno MTV, e l’arte del videoclip era quasi sconosciuta in Italia. La cosa singolare che mi piace sempre ricordare è che con Carlo, siamo diventati amici successivamente, allora, al tempo del suo interesse per la mia musica, ci conoscevamo appena.

Hai accennato agli States. Com’è stata la tua esperienza a San Francisco e nella Bay Area?

Per la verità a San Francisco sono durato poco perché non ne potevo più di nebbia e di vento gelido. Poi mi sono trasferito al di là del ponte, alle porte di San Francisco, un’area in cui mi sono trovato per mille motivi, clima incluso, decisamente più a mio agio. Là sentivo veramente il clima dell’oceano. Per un periodo ho abitato in una casa in mezzo a una foresta di sequoie, in quella che era stata la dimora di Jack London. In realtà di quella costruzione ne rimaneva solo metà, l’altra era andata distrutta in un incendio. Lì per un po’ ho lavorato e vissuto: mi ero costruito sotto la casa, in quella stessa abitazione in cui London aveva scritto “Il richiamo della foresta”, il mio studio. La cosa magica è che ho potuto vedere e vivere le stesse sequoie che avevano tenuto compagnia a London, ho potuto sentire il loro respiro. 

A proposito di Bay Area, so che Carlos Santana è stato uno dei tuoi eroi di gioventù. Che aneddoti mi puoi raccontare a riguardo?

Beh, posso dirti che con Santana ci sono stati degli incontri ravvicinati non da poco. L’ho incrociato varie volte. Una in particolare è accaduta in un posto molto selvaggio della California. Mi ero fermato con la macchina al bordo della strada per fotografare un coyote che se ne stava lì e ad un certo punto una vettura scura che veniva nel senso opposto si è arrestata; il vetro si è abbassato e un uomo ha cominciato a parlarmi del coyote. Lì per lì non l’ho riconosciuto. Era proprio Carlos Santana. L’incontro voluto dal caso è durato non molto, poi Santana mi ha fatto una specie di benedizione da guru ed è sgommato via.

Quando pubblicai “Egomusicocefalo” mi feci ispirare dal personaggio davvero supernatural di Carlos Santana forte anche di quell’episodio speciale.

Tornando indietro nel tempo, ti confesso che sempre Santana è stato responsabile in parte della mia scelta di avviare una carriera da musicista: quando avevo sedici anni, ero in una band rock e suonavo molti pezzi di Sanata; li suonavo benissimo fino al giorno in cui, ospiti di una festa privata, al momento si attaccare “Samba pa ti” mi emozionai a tal punto da combinare un mezzo disastro. Accusai a tal punto il colpo, che il giorno dopo diedi via la chitarra per riprenderla in mano solo a 25 anni!  

E invece della scena musicale della Bay Area cosa mi racconti?

Guarda si parla tanto del San Francisco sound, ma, in realtà, la città non è che abbia regalato al mondo così tanti musicisti. Mi spiego, il sound di San Francisco era alla fin dei conti riconducibile a quello di New York. Certo al Fillmore c’è stato tutto il movimento psichedelico, ma molte band non era del posto.

Piuttosto nei miei anni negli States mi sono appassionato molto al rap e alla figura di Tupac Shakur: lui era cresciuto musicalmente a Marin City, un grande quartiere periferico – che non definirei proprio un ghetto sebbene l’area presentasse delle problematiche sociali non da poco– a nord di San Francisco. La città, in generale, ha dato molto di più alla scena rap ed hip-hop piuttosto che a quella rock.

Per quanto riguarda il giro dei club, debbo confessarti che non si discosta molto da quella di molte metropoli italiane, con quei tre o quattro club jazz in cui tutti cercano di suonare e con artisti che, finito un set in un posto, velocemente si catapultano per un ennesimo spettacolo notturno in un’altra venie. In città ho avuto il piacere di suonare al “Top of the Mark”, una venue molto considerata situata in cima a un grande hotel con una vista mozzafiato sulla baia e sugli aerei in discesa verso l’aeroporto cittadino; in questa location sono stato ospite fisso per un certo periodo con un concerto a settimana.

Comunque ho suonato in quasi tutti gli storici locali jazz di Frisco. Diciamo che ho frequentato l’ambiente jazz di San Francisco, e queste mie frequentazione mi hanno portato a crescere e a migliorare come musicista: il fatto di frequentare jazzisti – in Italia ho sempre lavorato con delle band e per lo più mi dedicavo al cantare – mi ha portato, visto che difficilmente nell’ambiente riesci a suonare sempre con i medesimi compagni, a tornare ad essere uno strumentista.

Spesso e volentieri i musicisti con cui condividevo il palco non conoscevano i miei brani ed io non ho mai imparato a leggere le partiture. Per ovviare alla cosa me le sono fatte scrivere e per il resto ci si ingegnava per andare tutti armoniosamente nella medesima direzione. Quasi sempre mi trovavo ad essere l’unico che suonava degli accordi il che mi ha spinto a reinterpretare da zero i miei pezzi, compresi i cavalli di battaglia, in chiave jazz. Ammetto che è stata una bella palestra di cui ancora oggi godo i frutti. Compagno fisso nelle mie scorribande sonore, era un luminare d’informatica del posto, che mi faceva da tecnico del suono.

Se mi spingessi a definire la tua musica – e quella degli Swing Brothers che hai fondato con Francesco Baccini – come un “cantautorato jazz-scat-blues.” come reagiresti? A me il vostro modo di proporre musica fa venire in mente un mix tra il Gaber più scanzonato e i Lucio Dalla più colto. 

Beh, ci sei andato vicino. Francesco è più un animale da blues mentre io sono più, diciamo, tranquillo e jazz-fusion. Il nostro è un abbinamento, un sodalizio, abbastanza curioso che è nato in maniera altrettanto curiosa una notte. Ho sognato Francesco – premetto che, sebbene fossimo stati per del tempo sotto contratto con la stessa etichetta, ci eravamo parlati una sola volta a tavola in occasione di qualche festival, due chiacchiere e nulla di più. Ho sognato di fare un concerto con lui e nel cuore della notte ho svegliato mia moglie – che in realtà era sveglia a causa della mia irrequietezza – per chiederle se l’idea avrebbe potuto mai funzionare. Lei, conoscendo sia la mia musica che quella di Francesco, mi disse di provare. Tornammo a dormire. Il giorno dopo lo contattai sui social e la cosa ha subito cominciato a ingranare. Tieni conto che fino a quel momento io non avevo mai cercato collaborazioni con altri artisti miei connazionali. Ci siamo trovati subito bene sia artisticamente che umanamente. 

Aprirete l’edizione 2019 del JazzAscona. Cosa si deve aspettare il pubblico dalla vostra performance?

Noi abbiamo un canovaccio di massima che viene continuamente stravolto di volta in volta, data dopo data, concerto dopo concerto. In linea di massima è un “ping-pong” di successi: Francesco parte con un brano e subito dopo attacco io con uno altro altrettanto noto.

Ad Ascona saremo con la band e cercheremo di suonare di più rispetto a quando ci presentiamo per degli spettacoli piano, Francesco, chitarra, io, e due voci. In questa formazione, siamo più propensi a chiacchierare e a raccontarci al pubblico.

Alla fine si tratta di un vero e proprio “ping-pong” di successi e solo talvolta riusciamo a proporre i brani del nostro album. Pensa che a Roma, all’Auditorium, ad un certo punto abbiamo notato al margine del palco alcuni addetti sbracciarsi energicamente nella nostra direzione: eravamo così presi dalla performance – sai, fare convivere, tutti i nostri successi in un unico spettacolo non è una cosa da poco – che non ci eravamo per niente accorti di avere sforato di molto l’orario di fine concerto.