Ellen Birath

Intervista

Ellen Birath, la giovane cantante svedese che infiamma le notti dei club parigini ad Ascona

 

Sei originaria di Lund, nel Sud della Svezia, quasi di fronte a Copenaghen, la capitale del jazz europeo. Una zona, quella dove sei nata, ricca di storia musicale: A Falkenberg è, infatti, stata aperta la prima discoteca del paese. Mi viene da dire che sei cresciuta letteralmente in mezzo alla musica. Quale sono le tue prime memorie musicali e quando hai composto e interpretato la tua prima canzone?

Wow, ci sono così tanti ricordi tra cui scegliere! Ma uno dei primi è mio nonno che suona il piano. Era un grande appassionato di musica classica e un pianista ricco di talento, quindi posso dire che il pianoforte è stato come una presenza, direi, magica fin dall’infanzia. A volte suonava qualcosa anche mio padre; c’era in quei momenti sempre qualcosa di speciale, sai,  quando lasciava perdere le faccende in cui era indaffarato e si sedeva per un po’ al pianoforte a suonare. Penso di aver scritto la mia prima vera canzone verso i 15 anni, al pianoforte nel salotto dei miei genitori, ma ero così timida che non credo nessuno l’abbia mai sentita, quella canzone. Ne ho ancora memoria, che tenerezza! Ha,ha. Ci sono voluti molti più anni per iniziare a scrivere regolarmente e lasciarsi alle spalle la sensazione, la paura, di non essere abbastanza brava. Ma ritengo si tratti di qualcosa attraverso cui devono passare tutti i compositori e con cui devono costantemente confrontarsi nel corso della carriera. È difficile imparare a impugnare la penna, puntarla sul foglio e far uscire qualcosa. Ma, nonostante tutto, questo rimane un passaggio così fondamentale per chi scrive!

 

Ascoltando la tua frizzante cover di “Like a Virgin” di Madonna realizzata con gli Shadow Cats, si comprende finalmente quanto il jazz in realtà permei tutta la musica contemporanea. Ho avuto per te le stesse sensazioni che ho provato la prima volta che mi è capitato di ascoltare Amy Winehouse.

Te lo confermo. Sono assolutamente d’accordo. Il jazz è dappertutto. Non penso che ci sia un singolo genere musicale o una canzone che non riveli alla fine un qualche legame, una connessione, se preferisci; dovunque sentiamo il jazz! Sfortunatamente – ti parlo dell’Europa – il jazz viene spesso considerato un genere elitario a cui è difficile avvicinarsi. È un peccato, ma posso capirne il perché. C’è questa idea preconcetta che circola secondo cui i musicisti jazz – e di conseguenza la musica jazz – siano privi di humor, seri e un po’ introspettivi. Potrà anche capitare, ma questo non è il vero spirito del jazz. Immagino sia per questo che mi piace l’idea di sfumare i confini tra il jazz e gli altri generi, spostandomi dal soul al rhythm and blues, al rock and roll, il tutto per renderlo più abbordabile. Come dici tu, le radici del jazz attraversano quasi tutto quello che ci circonda.

 

Sei un’amante della musica degli anni Settanta, come si legge nella tua biografia. Questa passione ti ha permesso di mantenere nei tuoi lavori ben vivo un forte senso per le melodie pop. Quale sono stati e continuano ad essere tuoi principali riferimenti culturali? E quando questo mix ben bilanciato di jazz e pop contribuisce al successo delle tue serate nei club? A tal proposito c’è un episodio che vuoi rivelarci?

Sono cresciuta come una fan del glam rock. Ero assolutamente ossessionata da David Bowie, dai Queen, dai T-Rex, dai Thin Lizzy ecc. Ricordo che quand’ero ancora piccola mio padre ascoltava spesso i Led Zeppelin e i Pink Floyd. Quindi credo di essere cresciuta su una solida base di rock and roll, e ritengo che ciò abbia finito per influenzare molto i miei live show.

Il jazz è arrivato dopo: mia madre possedeva una compilation di Billie Holiday e presto mi ha preso una vera e propria ossessione per una versione di “Them There Eyes” che era nella tracklist. All’epoca il mio insegnante di piano si rendeva conto di quanto mi annoiavo suonare, quindi ha cominciato a farmi cantare degli standard di jazz durante le lezioni. Ha colto qualcosa in me e, oggi, sono molto grata per questa sua intuizione! Ascolto letteralmente di tutto, ma ho una profonda passione, un vero e proprio amore, per la musica giamaicana degli anni ’50, ’60 e ’70. Adoro la vecchia musica rocksteady e ska, due generi che hanno origine nel jazz e nel rhythm and blues! Riguardo agli aneddoti… Aha, ah, noi tendiamo a fiondarci sul palco e a scatenarci un po’ nei jazz club dove andiamo a suonare. Immagino che sia tutto quel rock and roll ascoltato nell’infanzia…

Ho molti bei ricordi del “Coolin”, questo bellissimo ma sudicio bar irlandese dove ho tenuto il mio primo concerto insieme agli Shadow Cats. Era un posto molto speciale e lo era anche il periodo della mia carriera perché ero ancora molto timida e legata ogni volta che salivo sul palco, ero davvero intimorita dalla situazione. C’è voluto circa un anno di concerti perché alla fine tutti saltassero sui tavoli a ballare sui tavoli mentre io camminavo sulle ginocchia per il palco, aha, ah…

 

Ora vivi a Parigi. Cos’hai trovato nella capitale francese che non c’era in Svezia? Parigi è stata, soprattutto, dalla fine del Secondo conflitto mondiale per un certo periodo una delle capitali del jazz nel Vecchio continente; negli ultimi decenni si è imposta anche come capitale della scena elettronica e e dell’electro-swing. Mi sembra che tu abbia scelto il giusto posto per creare brani che guardano a un melting pot sonoro – il tuo nuovo singolo “little Closer” sembra andare in questa direzione.

Penso che Parigi mi abbia dato un senso di anonimato, la sensazione che nessuno mi stesse osservando, il che mi ha permesso di poter fare tutto ciò che volevo. Ritengo che sia ciò di cui avevo bisogno per osare di sognare più in grande… Parigi, non me lo nascondo, è un posto difficile dove vivere, ma è diventata casa mia. È una città che non ti regala niente, ti costringe a lottare duramente per ogni cosa, ma, nonostante ciò, c’è sempre la sensazione che tutto sia possibile! Anche nel campo della musica!

 

Quando contano nel music business gli incontri fortunati? 

A Parigi? Gli incontri fortunati sono una parte fondamentale di tutto ciò. Grazie al caso ho incontrato proprio i compagni della band, tipi che ora son diventati tra ai miei migliori amici, ma che dico, dei veri e propri familiari. Stavo lavorando in un bar dove la domenica si faceva musica dal vivo. Il cantante Paddy Sherlock alla fine mi ha fatto salire sul palco per cantare una canzone; finita la performance, mi ha preso sotto la sua ala e in pratica è grazie a lui che ho conosciuto a tutti i musicisti con cui suono oggi. La tipica svolta nella vita, non trovi? Una cosa del tipo, “prima di Paddy” e “dopo Paddy.” Mi ha portata dritta a Thomas, Matthieu, Manu, Marten e Thomas! E mi ha fatto suonare la prima volta ad Ascona nel 2012! Sono successe così tante cose da allora.