Pablo Campos

Intervista

 

Pablo, com’è nata la tua passione per Nat King Cole? Lo consideri anche tu il musicista più cool che abbia mai calcato la superficie terrestre?

Beh, Nat King Cole ha avuto un ruolo chiave nel mio personale viaggio nella musica jazz. La gente spesso mi chiede come abbia imparato a suonare il piano e cantare contemporaneamente, e la mia risposta è sempre la stessa: grazie a Nat Cole ho imparato tutto!

All’epoca ero un insicuro teenager queer e mentre i miei coetanei ascoltavano gli ultimi successi radiofonici il jazz per me rappresentava un rifugio dove scovare tanta gioia. Nat King Cole è stato uno dei primi musicisti che ho ascoltato in maniera ossessiva tanto che ha modellato il mio gusto a molti livelli. I suoi virtuosismi al pianoforte sono da sempre ingiustamente trascurati ma ti confesso che alcune delle tecniche che ho appreso derivano dalla prima trascrizione che ho fatto della sua versione del preludio di Rachmaninoff in Do diesis minore o del suo classico “Sweet Georgia Brown”.

Vocalmente – non ho, ovviamente, mai avuto lo stesso colore della voce di Cole, voce che nel tempo, come saprai, è cambiata a causa della sua passione per il fumo – ricordo di aver emulato ogni sua idea nel fraseggiare una melodia. La sua dizione cristallina mi ha insegnato l’importanza dello storytelling nel cantare il grande songbook americano, una lezione, questa, a cui sono rimasto fedele fino ad oggi.

Nel tempo mi ha sorpreso scoprire che musicisti che ammiro così tanto come Oscar Peterson o Ray Charles hanno iniziato la loro carriera imitando Nat Cole: il loro esempio mi ha spinto ad andare oltre il semplice fascino per il maestro e a sforzarmi di trovare la mia voce come artista.

Anche adesso, ogni volta che guardo un suo video penso a come vorrei essere cool sul palco: siede un po’ sghembo al pianoforte, quasi di fronte al pubblico, con un sorriso perfetto e una scintilla negli occhi e suona e canta con quella nonchalance, con un senso così acuto dell’eleganza, con umorismo e disinvoltura. Non può esistere nulla di più cool!

Leggo che sei molto attivo sulla scena musica della Ville Lumière, non solo con la tua band ma anche con il collettivo ZOOT. Cosa ci puoi raccontare della tua esperienza sulle rive della Senna?

Mi ritengo davvero molto fortunato a far parte della scena parigina. Un sacco di musicisti di talento di tutto il mondo hanno fatto di questa città la loro casa permettendo a tutta la comunità di crescere e migliorare.

A Parigi ho incontrato i miei compagni di avventura, il contrabbassista svedese Viktor Nyberg e il batterista franco-americano Philip Maniez.

Pur trascorrendo buona parte del mio tempo in tour, mi piace sempre tornare a Parigi e alla sua ricca vita notturna, ai suoi numerosi jazz club e alle jam session. Nell’aria, tutto intorno, c’è un preciso mood, un feeling che riesci a percepire distintamente che mi spinge a dire che si sta scrivendo un nuovo ed entusiasmante capitolo nella lunga storia del jazz a Parigi, in particolare ho l’impressione che si stia lavorando per costruire un ponte musicale con New York.

A NY ho trascorso del tempo per cercare ispirazione; lì ho allacciato dei contatti con due dei miei musicisti preferiti, Peter & Kenny Washington, con i quali ho poi registrato il mio ultimo album. L’esperienza esaltante nella Grande Mela mi ha permesso poi di tornare con la valigia piena di nuove esperienze e idee a Parigi.

Tra le tante idee c’è stata anche quella del collettivo ZOOT che abbiamo fondato con un gruppo di amici che considero dei veri brothers in music: il nostro obiettivo è portare un pubblico nuovo e più giovane nei club di Parigi, scrivere musica nostra e spingere il jazz in avanti, rimanendo, però, sempre fedeli al nostro amore per lo swing. Ovviamente non siamo gli unici a farlo: anche nella scena mainstream c’è chi ha iniziato a registrare questa sorta di nuovo rinascimento. Per esempio Damien Chazelle, il regista di La La Land,  ha scelto proprio Parigi come set della sua prossima serie per Netflix. A mio parere, quello che rende oggi Parigi un posto speciale per il jazz è proprio il senso di comunità, un senso a cui hanno contribuito fortemente molti altri artisti. Vorrei menzionare il nostro amico talentuoso batterista Lawrence “Lo» Leathers (che è scomparso tragicamente pochi giorni fa), che si era trasferito a Parigi ed è stato una fonte d’ispirazione per tutti noi.

A JazzAscona suonerai con il tuo quartetto ma sarai coinvolto anche in numerose jam session. Ritieni che per questa la sua natura un po’ anarchica il jazz sia il genere per eccellenza per improvvisare? Nel rock del secolo scorso – penso ai Grateful Dead, in particolare – un sacco di band hanno adottato il blues e il jazz per scoprire nuove sonic highways.

Guarda, non vedo l’ora di iniziare le jam session ad Ascona! Sono da sempre uno dei momenti clou del festival! C’è un senso di festa e di complicità nelle jam session che è fondamentale nel mio rapporto con la musica. Certo, l’improvvisazione non appartiene esclusivamente al jazz – si dice che Liszt e Chopin siano stati dei grandi improvvisatori – ma per quanto riguarda le dinamiche collettive di improvvisazione, penso che il jazz abbia raggiunto un livello insuperabile di raffinatezza.

Uno degli aspetti più straordinari della nostra musica, il jazz, consiste proprio nel fatto che musicisti che non si sono mai incontrati prima possano salire su un palco e condividere il loro comune amore per il linguaggio musicale e la pura gioia di fare dello swing. Finché questo amore si mantiene genuino, io sono favorevole a qualsiasi tipo di esperimenti e combinazioni tra il jazz e altre forme d’arte!

Quali sono stati gli artisti, non solo quelli jazz, che maggiormente ti hanno influenzato e continuano a influenzarti? 

Il jazz è probabilmente uno dei più importanti fenomeni musicali del XX secolo e ha influenzato molte altre aree della cultura. Sono felice quest’anno di celebrare Nat King Cole non solo perché è una delle prime stelle della cultura pop, ma anche perché ha aperto la strada anche ad altre persone che mi hanno ispirato. Puoi trovare tracce di Cole nei dipinti di Jean-Michel Basquiat, ma anche nei film di Wong Kar-wai.

Fin dall’inizio mi sono dato da fare per trovare la mia voce al crocevia di tutte quelle influenze, dalla musica al cinema, dalla politica alla letteratura. Musicalmente molti artisti mi hanno aiutato a definire il mio stile e a capire che tipo di artista sarei stato: Sinatra, Ella, Louis, ma anche riferimenti meno noti, come Sonny Clark o Junior Mance e altri più vicini a noi come Harry Connick, Benny Green, Monty Alexander, Diana Krall, Jamie Cullum e Cecile McLorin Salvant.

Ammetto di essere stato fortunato ad aver avuto la possibilità di trascorrere del tempo con alcuni di questi miei eroi, ad esempio, con l’ultima leggenda del bebop Mr Barry Harris. Da ultimo, ma non meno importanti – la lista sarebbe troppo lunga per una sola intervista – sono da citare tutti i musicisti con cui ho avuto l’onore di condividere il palco, artisti che mi hanno fatto crescere concedendomi la loro amicizia e condividendo con me il loro talento: il chitarrista Dave Blenkhorn, con cui suonerò quest’anno ad Ascona, è in cima alla lista.