Sax Gordon

Intervista

Sax Gordon è uno dei musicisti più apprezzati dal pubblico di JazzAscona 2019. Conosciamolo un po’ meglio

Sax Gordon, ascoltando la tua musica si finisce per piombare nel cuore della tradizione musicale statunitense: rock, r&b, soul e jazz. Quali sono stati i principali passaggi nella tua carriera per sviluppare uno stile personale.

Ho iniziato per divertimento; parte del gioco consisteva nell’infilarmi in ogni situazione che mi permettesse di suonare. All’epoca – non c’era ancora internet quando ho mosso i primi passi nel mondo della musica – le radio trasmettevano ogni genere di musica. Manco ci facevi caso, ma stavi sentendo Chuck Berry e Fats Domino; Otis Redding e Aretha Franklin. Pensa, quand’ero ragazzino, ho visto Chuck Berry tenere uno spettacolo e scatenarsi sul pianale posteriore di un camion parcheggiato in un campo fangoso!

Nel quartiere dove abitavo c’erano alcuni musicisti più grandi di me che avevano l’abitudine di trovarsi e suonare in un garage che dava sulla strada, ci passavo davanti tutti i giorni tornando da scuola con il mio sassofono. Un giorno mi sono fermato e ho chiesto se potevo unirmi a loro. Stavano suonando pezzi rock e pop ed io feci del mio meglio per andargli dietro.

Suonare in una band mi ha insegnato molto, non solo ad aspettare il momento per l’assolo. Poi c’era il fatto che alcuni di questi ragazzi erano abbastanza grandi per poter comprare birra! Ad un certo punto risposi ad un annuncio di un gruppo che cercava proprio un sassofonista. Suonavano roba tipica dei gruppi anni Cinquanta. Venivano a prendermi a casa fermandosi a parlare con i miei genitori, poi andavamo a provare e attaccavamo pezzi come “The Locomotion” dei Little Eva, una hit dove il sax suonava nel modo tipico del rock stile anni Cinquanta. Ed è proprio così che quel sound mi è entrato in testa. All’epoca ho suonato anche con un gruppo di cui faceva parte un insegnante di un liceo, si suonava jazz, boogie e stride piano; ovviamente questa situazione mi ha spinto ad imparare alcuni degli standard jazz più semplici e a gestire i riff nel boogie-woogie. Questa era solo parte della scena della California del nord, quindi c’erano anche band alla Grateful Dead! Alla fine sono entrato negli Spydels, un gruppo locale con cui ho suonato ogni genere di classico del roots rock. Successivamente gli Spydels sarebbero diventati, con il nome di Mumbo Gumbo, una delle band più apprezzate di tutta l’area. Ricordo che aprimmo per i Blasters al loro primo tour; suonammo in una coffee house del campus. All’epoca il loro sassofonista era il grande Lee Allen (che suonava tutti quegli strepitosi assoli sui classici di Little Richard come “Lucille” e “Good Golly Miss Molly”!). Per non farmi mancare nulla, studiavo jazz con un musicista della Bay Area che si era trasferito in città, e suonavo in una band blues capitanata da Bill Scholer, che suona tuttora. Ho incontrato  Little Charlie & the Nightcats prima di firmassero per la Alligator Records e alla fine ho iniziato a lavorare con Johnny Heartsman, il grande bluesman della West Coast che si era trasferito a Sacramento. Con lui ho registrato “Shine On”, un’uscita discografica minore che è circolata solo su musicassette.Tutto questo mi è capitato prima dei 17 o 18 anni, prima che decidessi di partire in direzione della East Coast. All’epoca acquistavo già dei dischi cercando di capire cosa avrei dovuto ascoltare in modo da poter imparare tutti gli accorgimenti giusti da utilizzare nelle diverse situazioni che mi si sarebbero presentate.

 

Concedimi una domanda, diciamo, tecnica: come gestisci il fatto di suonare il sax e cantare? 

Mi piace dire in giro che “sono pieno di aria calda” (che dalle mie parti significa essere pieno di “cazzate”); ritengo di farlo ormai da molto tempo con ottimi risultati, ah haha ahh. Sai quando la musica suona bene, in realtà, la cosa ti dà energia!

 

Quale canzoni ti hanno cambiato la vita e ispirato nel tuo lavoro? 

Sono davvero troppe da elencare! E ‘stato un momento grandioso e magico quando per una strana coincidenza un estraneo mi ha consegnato una copia su cassetta dell’album “Rock & Roll” di Red Prysock.

“Memphis Soul Stew” di King Curtis è stato un brano top per me, ma in genre ho matto ed amo tutta la sua musica. Clarence Clemmons, collaboratore di Bruce Springsteen, è stato per me una grande fonte d’ispirazione; quando ero con gli Spydels mi piaceva tentare di suonare come lui quando facevamo la cover di “I’m Goin’ Down” del Boss. Vedere Big Jay McNeely esibirsi negli anni ’80 è stato altrettanto fantastico. Era così potente e padrone delle note mentre suonava e si esibiva in numeri pazzi e divertenti con il sax.

Anche Gaylord “Reggie” Grant (che è ancora in circolazione!), un sassofonista della zona di Boston, è stato di grande ispirazione. Suonava tutte le settimane al Cantab Lounge di Central Square a Cambridge, Massachusetts, con il cantante Soul e R&B Little Joe Cook; durante le sue esibizioni ero cos’ felice che a fine concerto il viso mi faceva male per l’aver troppo sorriso. Successivamente ci ho suonato anch’io prima di impegnarmi nel mio primo vero tour insieme al bluesman di Chicago Luther “Guitar Junior” Johnson, anche lui residente a Boston all’epoca. Anche Matt “Guitar” Murphy ha vissuto in questa zona e io mi sono unito a lui più tardi.

Ogni musicista che amo mi dà qualcosa di speciale e unico col modo in cui affronta la musica. Potrei andare avanti all’infinito citando musicisti meno conosciuti, gente come Vernard Johnson, Al Sears, Buddy Lucas, Lonnie Youngblood, Eddie Chamblee, Harold Ashby, Bobby Forte… 

 

Quanto nel corso di un live show è importante la presenza del pubblico e il dialogo con esso? Te lo chiedo perché spesso negli ultimi anni, gli album in studio sembrano non possedere quasi mai l’energia del live.

Posso solo parlare per me stesso, è una cosa che cambia da artista ad artista. Io sono molto orientato sul discorso della live performance. Penso che il vero scopo della mia musica sia quello di suonare dal vivo e di raggiungere il pubblico, cercare di afferrarlo, attirare la sua attenzione e fargli provare qualcosa. Mi piace giocare con gli estremi: amo fare rock scatenato ma penso che anche una ballata possa essere “estrema” in modo opposto, essere profonda e lunatica, portare in direzione di un sentimento totalmente diverso. Ho sempre pensato la maggior parte dei miei album come un modo di catturare o tradurre su disco ciò che facciamo live con la band. Nella mia discografia c’è un album jazz più tranquillo, “In The Wee Small Hours” edito dalla Delmark Records, che è più vicino alle atmosfere musicali notturne, ma in generale quando registro cerco di catturare tutta l’eccitazione e il divertimento di uno show dal vivo.

 

Hai incontrato e suonato con Sam Moore di Sam & Dave, uno dei giganti della soul music. Che ricordo hai di quell’esperienza?

Ho fatto con lui solo un breve tour, una settimana di date nella parte nord-orientale degli Stati Uniti. Un’esperienza breve ma preziosa, di quelle che ti lasciano qualcosa. Sam è stato gentile e ha firmato alcuni souvenir per me, un poster e un piccolo libro in cui racconta la sua storia.

Perdermi successivamente in quelle pagine mi ha rivelato molte cose su di lui e sulla sua musica. Non ha fatto un quadro celebrativo, è stato molto sincero sulla sua vita. Era quasi una confessione! La lettura mi ha fatto ripensare a quando l’ho incontrato per la prima volta e mi sono detto che forse, all’epoca, era felice di essere sopravvissuto e stava facendo uno sforzo per diventare una persona migliore.

Nel corso della mia carriera ho avuto la fortuna di lavorare con alcuni dei grandi interpreti del soul, artisti del calibro di Solomon Burke, Howard Tate, Little Milton, Johnny Copeland, Ben E. King, Martha Reeves, e altri ancora… Ho suonato per molti anni come membro della house band al noto Porretta Soul Festival, in Italia, dove abbiamo affiancato tanti grandi artisti soul e new soul, gente come Carla Thomas, Sugar Pie DeSanto, Spencer & Percy Wiggins, Lattimore, William Bell, Willie Walker, Swamp Dogg e strumentisti come Bernard Purdie e il sassofonista della Stax Records Joe Arnold.

 

Che progetti hai nel cassetto?

Confesso di essere entusiasta di venire ad Ascona con una grande band! Non mi sono ancora stancato di viaggiare, amo viaggiare e suonare e ho in programma tante date per concerti in Italia, Romania, Spagna, Lituania, Francia e, naturalmente, negli States. Questa estate farò un tour con Leon Beal, un cantante soul eccezionale ma non ancora così conosciuto.

Mi piace molto aiutare a organizzare spettacoli e mettere in piedi progetti musicali. Mi piace condurre band suonando i miei pezzi originali; a volte mi concentro sui jump blues e gli swing r&b tipici del periodo 1940/50, ma ho anche tirato su un gruppo con cui suono più in stile soul degli anni Sessanta.

Spesso mi invitano a comparire ad  eventi rock & roll anni ’50 e ai festival boogie woogie. Adoro tutti questi generi! Non appena mi capiterà ancora qualcos’altro di nuovo, ho intenzione di tornare in studio per registrare. Ti confesso che mi piacerebbe registrare con una Twang/Rockabilly Band che conosco, ma mi piacerebbe anche fare un altro album jazz, questa volta, però, con pezzi più ballabili.

Troppo spesso ci si dimentica che il jazz era il rock & roll di un tempo, una musica per divertirsi, con cui la gente amava fare festa e ballare. Molti musicisti per fortuna lo vedono ancora così, anche se magari la stampa che porta avanti il “modern jazz” non ne parla. Sono felice di registrare e suonare anche con altre persone. Ho appena fatto un disco per un mio vecchio amico, il chitarrista Junior Watson; un altro lavoro fatto con la cantante Whitney Shay sta andando molto bene; presto sentirai parlare di lei!